Forse si potrebbe essere indotti a pensare che la tesi sostenuta nel presente lavoro – che propone di tenere distinti i due concetti di portata soggettiva delle pronunce pregiudiziali, da un lato, e di loro efficacia nei confronti di quei giudici diversi dal giudice a quo verso cui esse siano realmente in grado di dirigersi, dall’altro, suggerendo di procedere ai relativi accertamenti caso per caso in relazione a ogni singola pronuncia e alla luce di determinati fattori – comporti il rischio di relativizzarne la portata e l’efficacia, così compromettendo la prevedibilità e la stabilità della giurisprudenza in materia di diritto dell’Unione all’interno degli Stati membri. Ciò evidentemente potrebbe tradursi, tra le altre cose, in una minaccia al principio-valore dello Stato di diritto consacrato all’art. 2 TUE, su cui l’Unione europea affonda le proprie radici.
In effetti, la circostanza che l’astratta idoneità di una pronuncia pregiudiziale a interessare uno o più giudici diversi dal giudice a quo dipenda da se e come si combinino in concreto i fattori esaminati nel corso del capitolo V (accertamento, questo, da compiersi appunto caso per caso) e che la pronuncia rilevi in termini “solo” orientativi per i giudici a cui sia effettivamente in grado di indirizzarsi, sembrerebbe a prima vista poter avere l’effetto di accordare, di volta in volta, un’eccessiva discrezionalità ai singoli giudici statali (eccezion fatta, chiaramente, per il giudice del rinvio) nel decidere se e in che misura uniformarsi ai dettami di una pronuncia richiesta da, e in prima battuta rivolta a, un altro giudice.
Tuttavia, a nostro modo di vedere, si tratta di un rischio che non vale la pena di ingigantire. L’operato dei giudici degli Stati membri è e rimane incardinato in un sistema giurisdizionale integrato e in una «comunità di diritto», in cui l’attività degli organi statali – compresa quella degli organi giudiziari – è sottoposta al controllo sul rispetto del diritto dell’Unione. Tale controllo non può che essere veicolato attraverso l’esame delle più robuste motivazioni che i giudici sono tenuti a formulare – proprio per effetto della rilevanza “solo” orientativa della pronuncia – ogni qualvolta intendano discostarsi da una pronuncia pregiudiziale formalmente diretta verso un altro giudice (e che però restano obbligati a prendere in considerazione, data appunto la rilevanza orientativa), peraltro alla luce di parametri stabiliti dallo stesso diritto dell’Unione e analizzati nel corso del capitolo VII. Esame, questo, che può spettare sia alla Corte di giustizia, in base e nei limiti delle competenze attribuite dai Trattati (su tutte, naturalmente, quella di cui agli artt. 258-260 TFUE, che per la verità si focalizza sull’inadempimento imputabile allo Stato del giudice), sia agli organi giudiziari statali in sede di impugnazione della decisione adottata dal giudice “ribelle”. Non va dimenticato, infatti, che questi ultimi costituiscono pur sempre «organi decentrati» del diritto dell’Unione e sono preposti a dare a esso piena applicazione e quindi a garantire l’osservanza delle sue norme e dei suoi criteri, compresi quelli finalizzati a determinare la portata soggettiva di una sentenza pregiudiziale della Corte di giustizia e l’intensità della sua rilevanza orientativa, da parte degli altri organi statali. Ciò almeno se l’indicato decentramento lo si vuole prendere sul serio. Peraltro, i giudici dell’impugnazione resterebbero pur sempre legittimati a interpellare la Corte di giustizia circa il rispetto dei predetti criteri da parte della decisione impugnata, avvalendosi del c.d. uso alternativo del rinvio ammesso dall’art. 267 TFUE.
Tutto ciò a noi pare restringere, anziché allentare, il margine di manovra autonomo, e quindi possibilmente abusivo, del giudice, ancorandolo a un preciso quadro giuridico e giurisdizionale consustanziato nell’ordinamento dell’Unione, proprio in linea con il (anziché a detrimento del) principio-valore dello Stato di diritto.
Con il risultato che la «modalità predefinita naturale» del giudice sarà inevitabilmente quella di conformarsi spontaneamente alle, anziché distanziarsi dalle, pronunce pregiudiziali che effettivamente lo riguardino e che esso consideri rilevanti ai fini della decisione della causa sottoposta alla sua cognizione, nonostante siano state emanate su domanda altrui, così garantendo quel minimo livello di omologazione di cui in apparenza il processo di integrazione europea, a torto o a ragione, ha così fortemente bisogno.