L’Italia è oramai giunta a un crocevia improcrastinabile in tema di scelte di gestione del fenomeno migratorio. Come noto, nell’ultimo trentennio si è assistito a una sua trasformazione da paese di emigrazione a paese di immigrazione. Infatti, se all’inizio degli anni ’80 del XX secolo, i cittadini stranieri stabilmente presenti sul territorio italiano si attestavano attorno ai 200.000 individui, meno dell’1% della popolazione residente, la situazione è drasticamente cambiata con l’ingresso nel nuovo millennio: tra il 2001 e il 2011, il numero di migranti ha raggiunto i 4,5 milioni, per attestarsi ad oltre i 5 milioni all’inizio del 2021. Molto dipende dalla collocazione geografica del Paese, che ha fatto sì che esso si trovasse (e si trovi tuttora) al centro delle migrazioni di massa che, soprattutto a partire del 2013, hanno visto lo spostarsi verso l’Unione Europea e attraverso il Mediterraneo di milioni di migranti provenienti da paesi in precarie condizioni politiche, economiche e sociali. Tale collocazione geografica, d’altra parte, ha inciso non soltanto sulla crescita numerica della popolazione migrante, ma ne condiziona fortemente la composizione: dei nuovi permessi di soggiorno rilasciati annualmente, la vasta maggioranza è composta da richieste di asilo e casi di ricongiungimento familiare, a fronte di un ben più limitato numero di permessi rilasciati per motivi di lavoro (ciò anche come conseguenza delle politiche di stringente contingentamento che, tradizionalmente, hanno riguardato il quantitativo massimo annuo di tali permessi lavorativi rilasciabili). Questo a indicare come l’Italia, a differenza di altri paesi storicamente caratterizzati da consistenti flussi di immigrazione (tra le ipotesi classiche, basti qui richiamare gli Stati Uniti, il Canada o l’Australia), presenti necessariamente minori possibilità di selezione dei singoli individui in ingresso, rendendo allo stesso tempo evidente e pressante l’esigenza dell’introduzione di una puntuale, sistematica ed efficiente politica di gestione del fenomeno migratorio. Una politica che, dal momento dell’ingresso nel territorio nazionale, non solo garantisca ai singoli individui una corretta protezione dei loro diritti, ma avvii percorsi di integrazione sociale che mirino il più possibile ad assicurare l’armonica convivenza nelle comunità locali, consentendo allo stesso tempo il pieno esplicamento delle potenzialità insite nel fenomeno migratorio, da vedersi non solo come fonte di problemi e spese per le finanze pubbliche, ma come occasione di crescita (in primis economica) della comunità di accoglienza.
Se, dunque, appare chiaro che l’integrazione dei migranti, a fronte dell’ampliarsi e del normalizzarsi del fenomeno migratorio, non possa che assurgere a interesse per la collettività nazionale, non può ancora dirsi che la politica e, conseguentemente, l’ordinamento giuridico italiano abbiano affrontato il tema migratorio in maniera soddisfacente, sia nel suo complesso, sia sotto il profilo specifico dell’inclusione sociale dei nuovi membri della collettività. La tendenza, infatti, è quella di continuare a rapportarsi con esso secondo dinamiche emergenziali e di breve periodo, qualificandolo in primo luogo come un problema da risolversi all’esterno dei confini nazionali, “chiudendoli” o cercando di limitare le partenze dai paesi di provenienza o transito, e concedendosi l’ingiustificato lusso di prestare poca attenzione alla crescente componente della collettività nazionale con background migratorio, ai suoi bisogni e ai suoi equilibri con la restante parte della popolazione italiana.
Da qui l’intenzione di fare dell’integrazione dei migranti lo specifico ambito di indagine entro cui collocare la presente ricerca con la quale, allo stesso tempo, si intende suggerire l’opportunità di osservare tale tematica sotto una luce particolare, che collochi al centro dei percorsi di inclusione sociale non soltanto il migrante chiamato a integrarsi, ma anche la società di accoglienza chiamata ad integrare. L’occasione di tale cambio di prospettiva è offerta da un contesto italiano – analogo a quello di molti paesi europei – in cui la scarsa attenzione, se non la “diffidenza verso lo straniero” hanno comportato l’affermazione di dinamiche sostanzialmente “assimilazioniste” – di c.d. civic integration – per cui lo sforzo di adattamento è posto principalmente in capo al migrante, che potrà stabilmente e legalmente permanere sul territorio nazionale, così come avere pieno godimento dei diritti individuali, solo qualora dimostri la sua capacità di amalgamarsi al tessuto socio-culturale nazionale.