L’uso della dizione “diritti fondamentali” utilizzata nel titolo, anziché di altre possibili come “diritti dell’uomo” o “diritti di libertà”, non è casuale, ma rappresenta una scelta precisa che punta, sciogliendo l’ambiguità insita in queste diverse dizioni, a concentrare l’...
L’uso della dizione “diritti fondamentali” utilizzata nel titolo, anziché di altre possibili come “diritti dell’uomo” o “diritti di libertà”, non è casuale, ma rappresenta una scelta precisa che punta, sciogliendo l’ambiguità insita in queste diverse dizioni, a concentrare l’attenzione su quei diritti che, proprio in virtù della loro qualificazione di “fondamentali” da parte della Costituzione, ne rappresentano il carattere distintivo e fondante. Diritti, dunque, di un rango diverso da quello di altri che possono trovare la loro fonte nella legge ordinaria.
Ciò significa attribuire alla codificazione costituzionale dei diritti fondamentali un particolare valore: non quello meramente ricognitivo di alcune fattispecie destinate ad essere integrate in via interpretativa con altre che gli sviluppi della vita sociale segnali come meritevoli di tutela, ma, al contrario, un valore tassativo: sono diritti fondamentali, e godono del particolare “status” (ossia delle garanzie) previsto dalla Costituzione solo quelli che quest’ultima definisce tali. Che poi questi diritti si possano distinguere in diritti civili, diritti politici o diritti economico e sociali poco importa: il punto importante è che si possa ricondurli alla categoria dei diritti fondamentali, per il significato che essi rivestono nel momento costitutivo di una certa esperienza statuale, segnandone uno dei caratteri distintivi di maggior rilievo.
In questo senso, lo studio dei diritti fondamentali non può non legarsi indissolubilmente alle varie tappe del costituzionalismo moderno, attraverso le quali tali diritti sono usciti dall’area dell’indifferente giuridico per acquistare, insieme alla natura di “diritti”, forme di riconoscimento e di tutela effettiva sempre più incisive.
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