«Gli altri si vantino per le pagine che hanno scritto, io vado orgoglioso per quelle che ho letto». C’è anche un po’ di questo, quando ci si decide per la forma antologica. Si preferisce non aggiungere troppo d’altro al mare magnum di scritti che già incombono, può a buona ragione dirsi, ...
«Gli altri si vantino per le pagine che hanno scritto, io vado orgoglioso per quelle che ho letto». C’è anche un po’ di questo, quando ci si decide per la forma antologica. Si preferisce non aggiungere troppo d’altro al mare magnum di scritti che già incombono, può a buona ragione dirsi, quasi su ogni tema possibile. E c’è pure una certa dose d’egoismo, come ci ricorda la sottilmente ironica poesia (Un lector) di Borges [Borges, 1969, 115]: perché scrivere è atto d’altruismo (non sempre, per vero), quando non motivato da narcisismo, mentre leggere è gusto, alimento spirituale nel piacere dei tesori della lingua, un piacere al quale il tempo necessario a solcare nuove righe di sicuro sottrae. Non vorrei però apparire contraddittorio ed alla ricerca d’ironia (la mia) grossolana; dunque, dichiarata una più intima disposizione d’animo, forse utile per avviare il lettore, è bene andar diretti agli aspetti più pubblici di questa raccolta.
La distribuzione antologica d’un materiale documentario – inteso nel senso ampio affermatosi in storiografia [Topolski, 1973, 446-62] – ha un pregio, che è dialetticamente il suo difetto. Il difetto, che la messa a tema dell’oggetto si presenta marcatamente scandita e quasi frammentaria. Non v’è dubbio sia così: per quanto il corredo critico che l’accompa¬gna possa provarsi a rendere omogeneo il prodotto complessivo o almeno a favorire un percorso di lettura, quest’ultimo resta affidato ad una materia abbastanza grezza, distribuita in sezioni, ciascuna delle quali con una propria autonomia, visibile già sul piano della disposizione grafica ed editoriale. Ma questo è anche il suo pregio. Perché le scelte del curatore e di chi ha collaborato alla riuscita dell’opera restano apertamente visibili, non mascherate ovvero dissolte nell’apparente coerenza unificante dell’esposizione, e sono perciò più presenti al lettore, che può valutarle, condividerle o criticarle con maggiore coscienza e può quindi giudicare il lavoro senza dover superare un eccesso di barriere retoriche ed argomentative.
C’è però anche dell’altro. Perché se è vero che antologizzare implica non poca presunzione in chi compie l’opera – egli pretende di distinguere il grano dal loglio – e dunque comporta una sua incombente presenza nella costruzione dell’argomento, è anche vero che questo è forse solo un dato apparente. Essendo ben noto, sin da risalenti insegnamenti dello storicismo e non solo, che qualsiasi interpretazione – soprattutto quando di mezzo c’è, come in questo caso, un cimento storiografico – comporta scelte decisive e performanti, nel senso che da esse dipende anche gran parte del risultato di quanto nelle fonti si rintraccia. Non è peraltro molto diverso da ciò che accade nel mondo della scienza in senso stretto, come da tempo è stato dimostrato sin dagli antesignani studi di Gaston Bachelard e George Canguilhem. Le scoperte, in altre parole, sono creatura del ricercatore e se questi talora fa mostra di meravigliarsi di quanto ha conosciuto, non è fuor di luogo nutrire qualche riserva sulla sua buona fede. Resta però il fatto che nella selezione antologica di documenti i tagli, anche per motivi di spazio, sono particolarmente tranchantes, se ci si può prendere questa licenza grazie allo stimolante accostamento di due lingue cugine.
D’altra parte, tutto quanto ruota intorno al mondo del diritto – e la giurisdizione ne è la manifestazione ad un tempo più incisiva ed universalizzante (il suo dire vale per tutti ed interviene nei rapporti inesorabilmente con posture universalisante [Bourdieu, 1986]) – si presta in modo particolare all’interpretazione: riguarda soprattutto rapporti relativamente consolidati, non fatti elementari, rapporti che nelle regole giuridiche e nel modo di dare ad esse applicazione trovano formalizzazioni [Simiand, 1903, 159] che richiedono attitudini ermeneutiche per essere intese ma che, quando intese, sono spesso e volentieri più rivelatrici dei fatti più elementari ad esse sottostanti. È insomma un po’ come se il diritto avesse già compiuto una parte del lavoro storiografico, mettendo in bella forma delle stabilità, che è compito dell’interprete di cogliere nel loro pieno significato.